La Via del ferro di Antonio Bellati

Mi è stato chiesto di rappresentare la Valsassina a questo convegno… Ma io non sono che un dilettante… Non volendo comunque sottrarmi all’impegno, ho cercato di alleggerirlo. E dunque ho deciso che farò semplicemente la guida, o meglio il “cicerone”, lungo un’ipotetica “Via del ferro” immaginando i miei ascoltatori degli ipotetici turisti-visitatori, appassionati, più o meno esperti in materia.

Tale via potrebbe partire da Lecco, salire in Valsassina e quindi in Valvarrone… Io però vi condurrò solo lungo l’ultimo segmento di questa via e cioè, come scrive l’Arrigoni, lungo “la strada Provinciale di 19 km. che, partendo da Cortenova, sale a Piazzo e segue il Varrone fino al suo principio, cioè alle miniere del monte Varrone”. Parleremo soprattutto di forni, di fucine, di miniere, ma faremo anche qualche divagazione.

Di vie del ferro ce ne sono un po’ dappertutto: (Val Trompia, Val Brembana, Val Torta, Da Bellinzona a Porlezza, Valle Stura, Zona di Populonia, Spoleto, Rieti, ecc…). Tutti pubblicano, tutti raccontano, tutti documentano la loro storia, ne mettono in luce le vestigia… Alcune di queste tante vie del ferro lo sono solo di nome, altre sono invece dei veri e propri percorsi archeologico-museali all’aperto, interessanti, curiosi, didattici, apprezzati dagli abitanti locali e turisticamente notevoli. Perché noi, figli della valle da cui, dicono alcuni, è discesa in pianura via Lecco la grande siderurgia italiana, siamo ancora di là da venire a questo proposito?

Eppure gli spazi, le vestigia, le testimonianze, le storie, le favole ci sono e come. Proverò a darvene un’idea.

L ’AMBIENTAZIONE

Facciamoci un’idea generale della zona.

Figura 1 – Valsassina e Valvarrone

La Valsassina, mediante la Valcasarga, valle sospesa che sale da Taceno e raggiunge la Bocca di Piazzo, si collega con la Valvarrone, la cui ampia testata a monte di Premana si suddivide in tre rami: la Val Marcia, più a Sud, la Val Varrone p.d. al centro, la Val Fraina più a Nord.

TACENO: OFFICINE PAVONI

Partendo da Cortenova facciamo la prima fermata a Taceno perché qui da vedere c’è qualcosa di prezioso: l’Officina Pavoni: calderai, cioè lavoratori del rame, dall’inizio dell’Ottocento. In precedenza questa officina era una chiodarola.
I magli ancora all’antica, con mazza a pipe (a pipa), azionati dall’acqua del torrente Maladiga, qui hanno lavorato fino a quindici anni fa; vi si producevano paioli, caldaie per la lavorazione del latte,ecc. Vi si fondeva il rame e lo si lavorava con gli antichi metodi. Tutto è ancora quasi a posto e basterebbe poco per poter riavviare gli impianti, magli e trombe eoliche (can de l’òre) compresi. E con gli impianti recuperare i metodi di lavoro, il linguaggio, le tradizioni…

    

Figura 2 – lavorazione del rame con maglio a pipa

BAGNALA – PIAZZO

Dall’alto dell’abitato di Taceno imbocchiamo la vecchia strada della Valsassina, che coincide sempre con la Via delle Miniere, e dopo breve salita giungiamo a Bagnala. Qui i ruderi di antiche mura ci ricordano la fortezza che in questo sito, chissà da quando, sbarrava la valle.
Saliamo all’incrocio dell’antica strada selciata che porta in Muggiasca (al bivio una bella pietra miliare) e prendiamo a destra per giungere presto a Margno, dove, nel vecchio nucleo, si può notare la struttura medievale del borgo e numerosi ottimi portali in pietra.

Proseguiamo quindi per Casargo; poco oltre notiamo la vetusta chiesetta di S. Margherita (la strada passava proprio sotto il portichetto antistante) e siamo alla bocca di Piazzo (la Cazze) ove entriamo in Valvarrone.

Figura 3 – S. Margherita

Qui sarebbe d’uopo una deviazione per:

CREMÓGN

Nel 1566 già esisteva in questo sito una fucina dei Grattarola di Margno, i quali prendono come socio nell’impresa al 50% Paolo Mornico, nobile di Cortenova, che mette in società 1000 ducati, dei quali 700 sono usati per costruire il forno fusorio. (I Mornico non si sa come avessero fatto i quattrini ma potevano! È Ben noto il quadro che ritrae Paolo mentre versa sul tavolo un sacco di monete…).

Paride Cattaneo magnifica questo casato e questo signore che, proprio in quel periodo, diventa proprietario di Villa Monastero in Varenna. I Mornico sono imprenditori poliedrici; per quanto riguarda il ferro, collaborano anche con Cipriano Denti di Bellano, altro astro nascente nel panorama siderurgico valsassinese del tempo. Entrambe le famiglie sono immanicate in alto, e come vedremo, sembra giungano a scomodare persino il re di Spagna…

Ma già nel 1633 il forno di Cremógn (o Cremonno) pare sia già inattivo: i Mornico ne avevano edificato un altro a Cortenova.
Del sito siderurgico di Cremógn non si dice più nulla. Oggi solo un toponimo: i Giàbi di fürni véc, dove il bosco la fa ormai da padrone, e poche tracce, che potrebbero essere indagate, ricordano l’antica attività.

Collegata a questa iniziativa è sicuramente da considerarsi la miniera di ferro tuttora visibile a Sud Ovest di Piagnona, quasi in fronte a Cremógn sul versante sinistro del Varrone.

UNA CURIOSITÀ A PREMANA

Per completezza di informazione, ricordiamo anche l’interessantissimo ritrovamento avvenuto a Premana nel 1997, indagato anche dalla Sovrintendenza con un piccolo scavo, durante il quale sono venute alla luce anche delle ceramiche del XV-XVI secolo. A proposito di questo reperto, sicuramente legato alla siderurgia ma del quale nessun documento noto fa cenno, non si è ricevuto dalla Sovrintendenza neppure uno straccio di relazione.

Figura 4 – il reperto rinvenuto a Premana

Ritorniamo sulla strada Provinciale delle miniere presso un ponte settecentesco, o forse più antico,che avrebbe bisogno di un intervento conservativo . E siamo al…

PONTE REGIO

Luogo strategico.
Perché Ponte Regio? Forse perché, come ricorda il Frumento, in loco c’era un forno chiamato Regio; come ricordava ancora nel Settecento un’iscrizione murata, forno Regio aveva il senso di forno a disposizione di tutti.
Gia dal 1370 si parla di forni e fucine dalle Scale del Dente al Ponte Regio di Premana.
Nel 1719/20 principiò al Ponte Regio una complessa vicenda che vedeva protagonisti gli Arrigoni-Socca, che volevano fare concorrenza ai Manzoni proprietari del forno di S. Giorgio, che fumava circa quattrocento metri a monte. Costruirono un forno nuovo con fucina grossa, ecc.; avevano come soci un Maroni e un Ruffini di Premana.
Ma i Manzoni erano un osso duro: incominciarono liti a proposito di miniere nelle quali liti entrarono pure i Bellati di cui diremo in seguito. L’impresa del Forno Nuovo fallì prima che il forno fosse acceso; i soldi spesi in liti mancavano poi per la messa a punto degli impianti…
L’ultimo documento che ricorda il Frumento a proposito di questa vicenda riguarda la partenza a piedi per Vienna di uno dei soci, che vuole portare una petizione all’Imperatore in persona a cui chiede, oltre a quattrini, il privilegio di intitolare il forno a Carlo VI “ad fugendas persecutiones”.
Il forno divenne di proprietà Manzoni e andò in rovina. La fucina grossa per contro lavorò fino all’inizio del Novecento quand’era proprietà dei Rubini e Scalini di Dongo, che avevano pure acquisito tutti i diritti di scavo sulle miniere del Varrone.
Altro forno venne qui costruito dai Mornico di Cortenova nel 1786 su insistenza dell’abate Ermenegildo Pini. Ma l’avvio del forno nel novembre del 1787 fu – dice il Frumento – di Wagneriana terribilità. Dopo un mese di campagna il forno scoppiò con grande impeto mentre si stava colando il ferro e ferì gravemente il maestro del forno stesso.
Proprio qui si ottenne comunque il primo sedicente acciaio del milanese nel 1788.

Figura 5 – edifici al Ponte Regio

Poi la fucina negli anni Venti dello scorso secolo divenne segheria. Il salto d’acqua di sette metri d’altezza fu attivo fino ad una trentina d’anni fa. Una foto scattata negli anni Cinquanta dello scorso secolo da un’idea generale del sito. Una ripulitura dello stesso metterebbe alla luce ancora tante vestigia: condotte per l’acqua, salti, fucine, ecc. In un edificio pericolante si trovano tuttora due enormi montanti di maglio in pietra, i più consistenti che io conosca; credo possano pesare ottanta/cento quintali l’uno.

Riprendiamo la nostra passeggiata per raggiungere dopo trecento metri…

GIÀBIO – IL FORNO DI S. GIORGIO

Ecco un’interessante foto di qualche tempo fa dell’area e degli edifici che un tempo costituivano il complesso siderurgico del glorioso forno di S. Giorgio, per oltre tre secoli il più importante e attivo dell’intera Valsassina.

Figura 6 – edifici e carbonili al forno di S. Giorgio

Ancora adolescente guardavo queste muraglie che mi impressionavano e mi facevano fantasticare circa la storia che avevano alle spalle… e spesso mi veniva alla mente un verso di Carducci: “…Queste minacce di romane mura al cielo e al tempo”. (G. Carducci, Le Ter- me di Caracalla).

D’accordo non sono mura romane, ma hanno sulle spalle 500 anni di storia.
Il forno fu fatto costruire da Cipriano Denti di Bellano (già proprietario del forno alla Soglia, ne parleremo) verso il 1567. Gli eredi Denti vendono nel 1607, nel 1610 è già dei Manzoni, nel 1619 tre delle quattro parti del forno sono ancora in mano a Premanesi.

Il 30 maggio del 1636 il forno fu distrutto da un luogotenente del Duca di Rohan che, sulla via di Lecco, era passato per la Val Gerola e il passo Trona ed era sceso a Premana, qui condotto da un personaggio equivoco, certo Pomo detto Polognina, che s’era dato da fare per acconciare le strade onde permettere il passaggio alla cavalleria del Rohan.

Nel 1640 il forno è ancora in disarmo, le maestranze mandano petizioni a Milano per ottenere previdenze per la ristrutturazione del forno che, si dice, dà lavoro a 150 operai; ma sotto sotto ci stanno le lotte tra i Manzoni e gli Arrigoni che in questo periodo giungono al colmo, con assalti, omicidi, denunce, processi, ecc.

Il forno resta dei Manzoni fin verso il 1775 poi viene affittato ai Mornico; passa quindi ai Fondra di Cortenova e nel 1846 esala l’ultima fumata.
Passa l’anno dopo agli Schiantarelli e nel 1860 ai Sanelli, che non fondono ferro ma, utilizzando la condotta e il salto d’acqua, arrotano coltelli.

La luce elettrica

Siamo alla fine dell’Ottocento. A Premana la notte di Natale dell’anno 1899 s’accendevano quattro lampadine elettriche. Era l’inizio concreto della modernità.
C’era stata una convenzione in carta da bollo tra il Sanelli già citato ed un eclettico meccanico esperto di dinamo e rotori: il Sanelli di giorno avrebbe continuato ad usare l’acqua del Varrone per far girare le mole e l’Acerboni di notte l’avrebbe usata per produrre corrente. E le lampadine s’accesero… Un canto, tuttora noto, immortalò l’evento:

La predisposizione della nuova zona industriale di Premana non ebbe rispetto dei carbonili e degli altri resti: tutto fu sepolto.

VAL MARSCE

In questa zona la Val Marce confluisce nel Varrone p.d.
Pure la Val Marsce (qualcuno dice: Valle Marzia, valle di Marte) fu interessata alla siderurgia da tempi antichissimi.
Essa rimase per molti secoli una via naturale abbastanza agevole per il trasporto del minerale dal Varrone (la vie dól car = la strada del carro). Documenti del 1360 già ricordano in questi siti una fucina vecchia; risale al 1427 la citazione di un primo forno da ferro in Val Marcia. Nel 1584 si parla di riedificare il forno sito in Val Marcia da parte del Cipriano Denti, che si accorda con gli uomini di Crandola per poter usare i boschi, i diritti d’acqua ed i diritti di transito di cavalli e muli. Un’antica carta geografica sita all’ingresso dei Musei Vaticani, pare segnali a Nord di Lecco solo la “Val Marzia et il furno”. Si ha ancora oggi reminiscenza dól Cantóon dél Füśìin, o dorsale delle fucine, che si trova oltre la valle del Piancone e pure di un Pràa dal forno dove si notavano fino a qualche decennio fa alcuni resti; oggi tutto è boscaglia.

Figura 7 – la Val Marsce

Ci muoviamo di altri duecento metri dal forno di S. Giorgio ed eccoci a:

LA FIM – FORNO BELLATI

Qui sorse verso la metà del Settecento un centro siderurgico razionalmente concepito che comprendeva un forno con relativi carbonili, una fucina grossa con annessi alloggi per gli operai e due fucinette; forno e fucine erano serviti da una fiumicella derivata dal Varrone circa trecento metri a monte e che per un buon tratto era stata ottenuta a suon di mine incidendo una parete rocciosa a picco sul torrente come ancora si può constatare.

Figura 8 – le fucine Bellati

Gli imprenditori erano dei Bellati i quali non solo erano operatori siderurgici ma anche notai: (gli atti di Pietro Maria Bellati e quindi di Carlo Giuseppe Bellati coprono tutto il Settecento e colmano una dozzina di faldoni all’Archivio di stato di Milano).
Pure questi impianti a fine Ottocento erano utilizzati da coltellinai per l’arrotatura. Oggi, come si vede, tutto è in rovina.

Figura 9 – rovine del forno

– cuscinetti a sfera

– i montanti in pietra del maglio

Proprio qui è ambientata la favola della ciotola di miglio.
Un diavoletto adolescente, non ancora esperto in tentazioni, si divertiva a disturbare gli stanchi operai della fucina. Di notte apriva le chiuse della fiumicella ed il grosso maglio incominciava a battere svegliando i poveretti; la faccenda si ripeteva a tutte le ore e sempre più spesso…
C’era tra gli operai un anziano: egli sapeva che il diavolo poteva sì far malanni di ogni genere ma doveva sempre lasciare ogni cosa rigorosamente come l’aveva trovata. Questi pensò quindi di giocare un brutto scherzo al folletto dispettoso. Prese una ciotola di legno, la riempì di miglio e la pose una sera sulla mazza grossa del maglio.

Anche quella notte venne il diavolo ed aprì le chiuse… Ma il suo orecchio finissimo lo avvertì subito del malanno combinato. Il monello bloccò immediatamente il maglio, entrò nella fucina e si mise a raccogliere i chicchi di miglio sparsi dappertutto. Vi riuscì un istante prima dell’alba e poté fuggirsene senza rischi di castighi da parte di Belzebù, ma di dispetti agli stanchi operai delle fucine non ne giocò mai più.

Ecco l’emblema del “tempo che – come dice Foscolo – con sue fredde ale vi spazza fin le rovine…
Eppure tanto qui potrebbe ancora essere recuperato.

Figura 10 – la Fim – rovine

GÈBIO

Cinquecento metri più avanti ci troviamo in mezzo a numerosi cascinali ancora ben conservati. Qui era ubicata la prima officina di coltelleria di cui si hanno documenti. Risale agli inizi del Settecento, apparteneva ad un Fazzini Antonio i cui discendenti vennero tutti chiamati fabbri cortelàri. Tra di essi si trovano pure i fondatori delle Coltellerie Montana oggi multinazionale Fiskars.

RASGHE

Figura 11 – la Rasghe – alpeggio

– Figura 12 – resto di basso fuoco

Poco oltre questa località giungiamo allo sbocco della Val Fraina le cui acque, superata una profondissima forra: ól Böc de l’Üśéle, confluiscono nel Varrone p.d. In questa valle collaterale, il cui nome pare richiamare i fraini e cioè gli scavatori delle miniere, nessun documento testimonia attività siderurgiche. Rimane però il fatto che all’alpeggio Rasghe esiste un alto muro, anomalo per il sito, ai piedi del quale si notano ancora oggi resti di scorie dovute a processi di fusione.

In questo sito negli anni Settanta portai pure l’Ing. Pietro Pensa e venne fatto un sondaggio. Furono trovate scorie vetrose d’un colore verde e nero alcune delle quali l’ingegnere portò con sé col proposito di farle esaminare.

Il basso fuoco

Rimandiamo al bel libro di Tizzoni (Alle origini della siderurgia lecchese) per capire cos’era il basso fuoco: un forno dalle dimensioni assai

Figura 13 – il basso fuoco (Tizzoni)

ridotte costruito con materiale refrattario e distrutto ad ogni processo di fusione del minerale di ferro. Da tali forni nei quali si raggiungevano temperature attorno agli 8/900 gradi si otteneva, (per riduzione, e cioè per eliminazione dell’ossigeno dagli ossidi di ferro dei minerali) un “blumo” cioè un ammasso di ferro spugnoso agevolmente malleabile dopo alcune operazioni di riscaldo e battitura che lo purificavano e compattavano.
Questi tipi di forni, ventilati con mantici, furono in uso dalla preistoria fino al XVIII secolo. Era un modo artigianale e relativamente semplice per ottenere del metallo malleabile ed era un processo alla portata di tutti. Forse alla Rasghe restano le vestigia di un basso fuoco aggiornato, detto anche forno a tino, cioè con una parte di forno che non veniva distrutta ad ogni processo di fusione ma che era fissa così come avveniva anche in altri siti.

Poteva insomma trattarsi di un forno “casalingo”, un forno “in nero… non denunciato alla Camera di commercio…” che sfuggiva al fisco e alle tasse. In questi forni si potevano produrre quaranta/cinquanta chili di spugna di ferro ad ogni cottura e di cotture se ne potevano fare anche tre al giorno.

Teniamo presente che il minerale era a portata di mano dei premanesi che sempre ebbero parte in qualche miniera del Varrone; altrettanto dicasi per il carbone. Non per nulla i premanesi erano tutti fabbri. Alcuni quintali di ferro prodotti in forni come questi potevano bastare a lungo per il lavoro di molti fabbri…

Sarebbe interessante conoscere l’età delle scorie (che anche recentemente ho prelevato); ma è presumibile che questo forno abbia lavorato da tempi antichissimi fino, forse, ai primi decenni dell’Ottocento.

Il forno alla Rasghe avrebbe bisogno di qualche approfondimento, ma non è il solo mistero in Val Fraina. Poco sopra il suddetto alpeggio, in un pianoro esposto, la leggenda colloca le origini di Premana. In quelle zone nel Seicento è ancora segnalata una Gesgiöle Véğe (vecchia chiesina) della quale anziani da me interpellati ancora ricordano i ruderi e testimoniata ancora oggi dal toponimo Piazze de la Gesgiöle Véğe.

Figura 14 – l’iscrizione

Recentemente è stata riconosciuta un’epigrafe cristiana datata attorno al nono secolo (Sannazzaro), oggi architrave di porta di una cascina, che potrebbe aver fatto parte di quella chiesa. Ma torniamo sulla nostra Via delle Miniere e giungiamo tosto al Pegnadőür poggio con una cappellina già ricordata nel Quattrocento.

ÓL POJÀT OVVERO LA CARBONAIA

In queste zone si trovano diversi spiazzi sui quali in passato erano predisposte le carbonaie o pojàt; questi spiazzi sono numerosissimi, solo in Valvarrone si contano a centinaia. Sarebbe facile ricostruire una carbonaia in questi siti onde poter illustrare dal vivo il processo di trasformazione della legna in carbone.

Tale lavoro era nei secoli passati un’attività importantissima in queste zone, ed era strettamente legata all’attività mineraria. I valsassinesi erano noti come esperti carbonai anche in Valtellina, dove molti si recavano per svolgere questo lavoro.
Preparata la legna e livellato il fondo della jaal, al centro della stessa vengono sepolti, quasi segno di propiziazione, due legnetti la cróos, in quello che sarebbe stato il punto centrale della catasta. Viene poi piantata la pèrteghe, usata a mo’ di filo a piombo per la costruzione ben perpendicolare della caśéle o incastellatura centrale a guisa di gabbia, all’interno della quale sarebbe rimasto un vano alto e stretto: la camera di combustione. Attorno alla caśéle si appoggiano quindi legni e legnetti, con cura, con ordine, con attenzione, cercando di non lasciare spazi vuoti, interstizi troppo larghi, di dosare il legname grosso e minuto, di distribuire con equità le varie essenze legnose eventualmente disponibili.

Figura 15 – la caséle in miniatura

Tutto il legname è ordinato almeno su due ripiani, o corsi, chiamati: la ölte de sóre e la ölte de sót. La ölte de sót è più perpendicolare rispetto al terreno, mentre la ölte de só- re ed eventualmente anche il terzo corso devono essere meno perpendicolari e più inclinati. Sistemato tutto il legname, occorre fàch la pél al pojàt e cioè tappare con legni e legnetti tutti gli interstizi tra legna e legna in modo di lasciare meno spazi liberi. Quindi si prepara ól patősc, un ammasso di erba e terra opportunamente bagnato con il quale si ricopre accuratamente l’intera catasta. Costituirà uno strato isolante per bloccare la fuoriuscita del calore e l’ingresso nella catasta dell’aria, specie in presenza di venti anche leggeri. Infine si riprende il terriccio nero tutto attorno alla jaal, lo si inumidisce, e si ricopre abbondantemente la catasta pressandolo via via con il badile. Per sostenere ól patősc e il terriccio di copertura, torno torno al cono si infilano dei paletti e delle fronde, formando la scéśe dól pojàt, la siepe della carbonaia.

La carbonaia è pronta. Appare come un grande cono nero o come una semisfera alta due metri circa, con un diametro che può raggiungere gli otto-dieci metri.

Per l’accensione del pojàt si prepara, a parte, un braciere e lo si versa nella camera di combustione. Il braciere si alimenta con cura fin quando si può star sicuri che la combustione sia avviata. Allora si incomincia a dàch da majà e cioè a rovesciare nella caśéle i gnòchi: pezzettini di legno portati con la bazze, dopo aver scostato ól scèspet, la grande zolla che chiude il vano stesso. L’operazione è ripetuta più volte, fin quando la combustione interna procede in modo consistente e fin quando l’intera caśéle risulta piena di brace.

Figura 16 – ól pojàt o carbonaia

A questo punto la caśéle è tappata e ól pojàt incomincia a vivere la sua breve esistenza, assistito amorevolmente dal carbonaio, che lo considera come una creatura vivente.
La cottura del pojàt è affare delicato. Bisogna stare attenti che la catasta non prenda fuoco, controllare l’andamento della combustione; occorre valutare il momento di praticare i böc, fori di tiraggio nel cono fumante, onde guidare sapientemente la cottura uniforme di tutto il legname. Occorre proteggere la carbonaia dai venti più leggeri.

Era un lavoro da maestro. La cottura, a seconda della quantità di legna utilizzata, può richiedere da tre-quattro giorni fino a quindici. Quando il pennacchio di fumo non è più color cenere ma si fa via via azzurrino e leggero, è il segnale che la combustione volge al termine. Si tappano completamente tutti i fori praticati nel cono in modo di lagàl sorà, cioè spegnere e raffreddare, prima de tràl fò, cioè prima di iniziare il recupero del carbone.

Il carbone è lasciato raffreddare prima di essere insaccato, perché può nascondere il fuoco. Tante volte si sono accese él bisàch cioè i sacchi di carbone, già sulle spalle di qualche portina! Per insaccare il carbone si usa la bazze stesa per terra, sulla quale, col rastrello, si accumula una certa quantità di carbone che viene versata nei sacchi. Ogni bisàche era chiusa con dei legnetti o cavìci, coi quali si avvoltolava il bordo del sacco. Sui cavìci si segnava il peso. Il lavoro delle portine era pagato in base al peso trasportato. Generalmente sulla gerla si caricava la cóbie, e cioè due sacchi, per un peso totale di sessanta-settanta chilogrammi.

Ma riprendiamo il nostro cammino e tosto giungiamo alla…

SOGLIA

Documenti che erano una volta all’archivio Comunale di Premana e che sono citati dal Gianola ricordano che già dal 1253 esisteva questo forno esercitato dai Denti di Bellano. Nel 1300 e 1400 il forno è gestito da imprenditori di Gerola, Ruffoni, e dai Rusconi di Premana.
Che forno era?

Riportiamo da un documento del 20 aprile 1351 redatto in Morbegno. Quattro soci Ruffoni si accordano di mettere il capitale:

“…Aedificando, construendo, fornendo et perfeciando ipsum furnum cum omnibus schupis ipsi furni oportunis usque quo possit coquere ferum seu collare venam…” (doc. arch. st. So.).
Dunque il forno alla Soglia non era più un basso fuoco. Non si estraeva il blumo o ferro spugnoso ottenuto per riduzione.

Era un forno ormai simile a quelli del Cinque-Seicento, tipo alla bergamasca. Un forno nel quale il ferro era colato, cioè estratto dal forno allo stato liquido. Era un forno posto lungo il torrente perché aveva bisogno dell’acqua. L’acqua azionava i mantici per ravvivare la combustione e poi i magli delle fucine grosse.

I forni di questo tipo si diffusero in Europa non prima del ‘200; così risulta dall’archeologia e forse tra i primi documenti scritti relativi a forni di questo tipo ci sono quelli che riguardano proprio questo forno.
Di altri forni simili, per esempio in Valsassina, si parla solo in documenti tardo quattrocenteschi. Dunque pare sia avvenuto proprio da queste parti (Val Varrone, Valgerola, Bergamasca) il salto tecnologico della siderurgia in Europa, ponendo in tal modo la Valsassina con la Bergamasca all’avanguardia almeno per qualche secolo (Sella).

Ancora a fine Quattrocento fu un esperto di Gerola, Jacopo Tacchetto, figlio d’arte, a portarsi in Garfagnana e precisamente a Fornovolasco per conto di Ercole I d’Este, a costruire il primo forno alla bergamasca da quelle parti. Tacchetto era un esperto perché, costruito il forno per Ercole I, rientrò in Valsassina per costruire il forno di Simone Arrigoni al Ponte di Chiuso in Valsassina.

E quarant’anni dopo furono dei mercanti valsassinesi residenti a Firenze a indirizzare Cosimo I verso Brescia per avere mastri di forno. (Manlio Calegari).

Il forno alla Soglia fu ricostruito parecchie volte; numerosi documenti ci dicono che qui c’erano case, fucine grosse, carbonili, ecc. Il forno verso il 1570 vede come proprietario Cipriano Denti, sempre lui. Vediamo di conoscerlo meglio.

La famiglia Denti, che possedeva una fucina a Bellano allo sbocco dell’Orrido e che forniva proietti di artiglieria alle armate spagnole, già dal 1540 aveva cercato di ritagliarsi un personale distretto minerario tra Valsassina e Valvarrone, concentrando nelle sue mani la proprietà dei forni esistenti. Con una serie di atti notarili acquistò dai comuni della zona i diritti d’uso delle acque, di sfruttamento dei boschi e pure delle miniere di ferro che si sarebbero rinvenute in queste zone. Il suo disegno non riuscì per l’irriducibile opposizione dei premanesi dovuta al fatto che i Denti, ritenendo di avere su tutto dei diritti esclusivi, interferivano pesantemente sui diritti di pascolo, di legnatico e di altri usi civici sempre goduti dai comunisti.

Probabilmente i premanesi ostacolarono fieramente in particolare il Denti Cipriano anche per il fatto che si sentivano forse da lui privati dell’accesso facile al minerale, accesso che loro avevano sempre avuto in quanto da sempre proprietari del forno alla Soglia e di quote di miniere. Questa contesa che durò per quasi tutta la seconda metà del Cinquecento, conobbe soprusi e malversazioni da tutte le parti; i Denti, a quanto risulta da una grida ottenuta contro i premanesi, si appellarono persino al re di Spagna; si parlò di bravi assoldati per proteggere le miniere ed i lavoranti; si parlò, per la prima volta su documenti ufficiali, del rischio che molto metallo sparisse per vicoli poco chiari senza sottostare alle… imposte. Ma alla fine di tutto questo, i Denti, anche a seguito della morte di Cipriano che lasciò un figlio minorenne, rinunciarono al loro sogno di distretto minerario e nel 1607 cedettero i loro diritti.

Da metà Seicento di questo forno non si parla più ma pare che sia rimasto attivo almeno fin verso il 1740 e oltre.

Figura 17 – la zona ove sorgeva il forno alla Soglia

Anche questo probabilmente rimase un forno in nero a disposizione dei Premanesi. È certo che ancora nel 1742 un Giovanni Bertoldini lascia alla sua morte “cavalli, quadri di ferro crudo, centenara 300 di vena e altra vena alla ferrera alla Solia…”

Si noti che proprio nel corso del Settecento si ebbe il picco massimo dell’emigrazione fabbrile premanese e valsassinese a Venezia. Citiamo la Dattero: “Da un censimento dell’arte dei fabbri redatto [a Venezia] nel 1768 risulta che i capomastri dell’arte, cioè coloro che possedevano una bottega, erano 257. Di questi ben 125 provenivano dalla Valsassina”. Prosegue poi precisando che queste 125 officine occupavano tra maestri, lavoranti e garzoni 249 valsassinesi, dei quali 124 erano premanesi.

Cosa rimane del forno alla Soglia? Una terribile alluvione nel 1911 fece rovinare nelle acque del torrente i ruderi rimasti, alcuni dei quali ridotti a cascine d’alpeggio; ma qualcosa rimane ancora, un piccolo edificio a involto immediatamente a valle della strada che era chiamato medàl e cioè piccolo magazzino; qualche scavo potrebbe riportare alla luce anche dell’altro. Rimane poi il toponimo scotèer che indica la zona immediatamente a valle sulla riva del torrente e ricorda il sito dei magazzini dove si conservava la vena torrefatta.

Il forno alla bergamasca

Era costruito in pietre refrattarie la cui bontà era conosciuta tramite l’esperienza. Era un edificio sostanzialmente piccolino; un quadrato con il lato esterno attorno ai tre/quattro metri con all’interno una specie di grande camino pure quadrato il fondo del quale si restringeva nel crogiolo; pure in alto questo vano quadrato si restringeva.

Solitamente il forno aveva intorno altri edifici che servivano, pare, anche da contrafforti ai muri del forno vero e proprio.
Il forno, nel quale si raggiungevano e superavano i 1200 gradi di temperatura, una volta in preśőre, cioè una volta acceso ed avviato il processo di fusione (questa operazione richiedeva anche una settimana), restava acceso in continuazione anche per molti mesi. Per questo prima di accendere il forno occorreva preparare una congrua quantità di vena e di carbone. La prima era accumulata negli scotèer, la seconda nei carbonili.

Nella parte bassa del forno si trovavano le aperture per gli ugelli dei mantici, o delle trombe eoliche; c’era pure un’apertura per lo scarico delle loppe o scorie liquefatte che si formavano nel forno (nel quale talvolta con vena e carbone si immetteva pure del materiale fondente); ancora più in basso c’era un’apertura dalla quale fuoriusciva il metallo fuso; essa era solitamente chiusa con un tappo di refrattario che era rotto o levato, mediante lunghe pertiche, al momento opportuno (sembra ogni 24 ore – Ora di forno). Questa operazione era detta qui e in tutta l’area montana Lombardia fà la sèje. Curioso ricordare che l’avvio del forno era indicato come: dà aque al fórno = dare acqua al forno, in quanto l’avviamento, oltre che l’accensione, comportava anche l’avviamento della ventilazione, che era ottenuta con él can de l’òre o trombe eoliche .

Il forno, alto sei metri circa, era alimentato dall’alto alternativamente con vena e carbone a giudizio dól menestradóor (sovrintendente) e che gli inservienti li portavano a spalle salendo lungo dei ter- rapieni. Ma dall’alto del forno uscivano in continuazione anche fumo e fiamme.
Solo nel Settecento la sezione di questo tipo di forno divenne tonda alla norvegiana e verso la metà dell’Ottocento il forno si elevò anche in altezza raggiungendo in certi casi anche gli undici metri (V altrompia).

Riprendiamo la Via delle Miniere dopo questa lunga sosta.

DÉNT

Nel 1370 si parla di forni e fucine dalle Scale del Dente al Ponte di Premana.
Alle Scale del Dént ancora una trentina d’anni fa si notavano rovine che il bosco ha ormai divorato. E, mentre ero nel bosco a spostar frasche e fogliame in cerca di quelle rovine, mi ritornava in testa il Carducci:

Figura 18 – rovine al Dént

Noi non solo ignoriamo, ma snobbiamo l’importanza del- la storia, non la conosciamo, la distruggiamo… e neppure vincoliamo le aree di questi siti…

Ma ecco una linea di muro, ecco delle pietre lavorate, ecco un altro muro, antico, massiccio, curio- so, forse un trampolino per il salto dell’acqua…

Abbiamo finito la prima parte del nostro tour, quello dei forni e delle fucine dei grossi impianti. Ora andiamo verso la seconda parte, ma non c’è soluzione di continuità perché presso il Ponte del Dente, proprio nel letto del torrente, vediamo la prima buca o miniera; è piena d’acqua e, si dice, vi si peschino delle trote enormi.
Passiamo il Torrente ed ha inizio ól Cantóon de la Zepriàne, una dorsale che sale da fondovalle alla Sponda di Biandino lungo la quale si aprono diverse buche o miniere ed in particolare la così detta Cipriana, in quanto coltivata per la prima volta dal già citato Cipriano Denti.

Mentre saliamo il gradino che ci porterà al bacino minerario vero e proprio dell’alto Varrone, cerchiamo di soddisfare qualche curiosità.

Il ferro prodotto – Il volume dei materiali impiegati

A meta 600 si impiegavano all’incirca kg. 6.600 di materiali per produrre una tonnellata di ghisa. Ma se invece di contare il peso del carbone contiamo il peso della legna, per ogni tonnellata di ferro si dovevano movimentare all’incirca 14/15 tonnellate di materiali.
Ma quanto ferro si produceva annualmente in Valsassina?

La produzione variava moltissimo da anno ad anno e da secolo a secolo. Il Sella parla di un migliaio di tonnellate l’anno a fine Cinquecento, il Tizzoni pensa esattamente alla metà. A titolo di confronto si noti che il distretto bresciano-bergamasco a fine Seicento produceva ancora oltre quattromila ton- nellate di ghisa l’anno. In tutta Europa, scrive il Sella, si stimavano prodotte nel Cinquecento attor- no alle 100.000 tonn. di ferro all’anno.

Assumendo per buona la stima del Tizzoni, si può dire che in Valsassina, solo per la produzione siderurgica, si movimentavano almeno 7/8 mila tonn. di materiali l’anno e… senza un carretto!

VARRONE – LA STRADA DI M. TERESA

Figura 19 – i piàan dé Varóon

– la zona delle miniere con la Strada di M. Teresa

Ci stiamo ormai affacciando ai Piani di Varrone, l’ultimo tratto della valle omonima, ampia radura pascolava di origine glaciale a 1800 m. slm.

Alla nostra destra la Strada Provinciale delle Miniere o strada di Maria Teresa lascia il fondovalle per salire verso le bocche principali che su questo versante, nella zona detta él Ferèer, sono numerosissime.

Questo tratto di strada, ancora ben conservato, è del tutto originale così come lo si poteva vedere 250 anni fa (la strada fino in Varrone fu risistemata e a tratti rifatta e ritracciata durante la Prima Guerra Mondiale, nell’ambito dei lavori per la Linea Cadorna).

Figura 20 – la strada di M. Teresa

La strada salendo aggira una piccola dorsale sulla quale sorgeva da epoche insondabili il così detto Fòrt de Varóon del quale si scorgeva ancora qualche abbozzo di muro (e la cui area fu recentemente e incoscientemente manomessa). La strada conduce all’imbocco delle principali miniere delle quali ancora si vedono le tracce.

LE MINIERE

Ed eccoci alle miniere o buche o ferèer; sono numerosissime e si concentrano proprio sulla sponda di Biandino e particolarmente sul versante di Varrone. C’è chi dice che la montagna sia letteralmente traforata, M. Gioia e il Curioni parlano di un dedalo di cunicoli e di vaste caverne all’interno della montagna. Cosa c’è di vero in tutto questo?

Facciamo due conti

Per produrre una tonnellata di ferro fuso occorrono all’incirca tre tonn. di vena torrefatta equivalen- te a circa quattro tonn. di minerale scavato. Il che significa che per ogni tonn. di ferro si scavava all’incirca 1 mc. di roccia metallifera, considerata di peso specifico 4. Questi sono conti che voglio- no dare l’idea dell’ordine di grandezza e nulla più naturalmente.

Figura 21 – le miniere

Dunque se parliamo di una produzione di 500 tonn. di ferro l’anno dobbiamo parlare di circa 500 mc. scavati all’anno e se supponiamo che questi quantitativi siano stati mantenuti per 400 anni dobbiamo pensare a 200.000 mc. scavati…. Sono troppi? Facciamo la metà: 100.000 mc. scavati. Ma centomila mc. scavati sono pari a un cunicolo largo 1 m. alto 2 m. e lungo 50 Km….

Certo, certo c’era anche qualche scavo a cielo aperto, i cunicoli erano più stretti e c’erano anche le camere, le sacche di minerale scavate creando caverne enormi e poi oltre a quelle del Varrone c’era qualche altra miniera… D’accordo, ma comunque la si giri, è più che verosimile quello che scrivo- no i personaggi sopra citati: questa montagna è un gruviera sicuramente colma di tanti affascinanti misteri… E perché gli speleologi non vanno almeno a curiosare…?

Ecco una citazione dall’Arrigoni: “Qui è principalmente sul vicino Varrone, il monte più fecondo di ferro, che da molti secoli e forse fino dai tempi di Roma si va scavando questo metallo. Per un intero giorno puoi aggirarti per entro le buie viscere del monte e non basta a percorrerne tutti i cunicoli”.

ÓL FRAÌIN – IL FRAINO O MINATORE

Possiamo raccogliere ovunque dei residui di roccia metallifera; si tratta di siderite.
Cavare e riportare all’esterno quella pietra nera e quindi arrostirla nelle reglane. Era questo il lavoro dei fraini, che spesso erano bambini perché più facilmente si muovevano nei cunicoli; era un lavoro di miseria, un lavoro svolto con sistemi assai rudimentali fino al tardo Seicento quando si diffuse l’utilizzo della polvere da mina. I fraini lavoravano a squadre di due o tre persone; diverse squadre potevano operare in punti diversi della stessa miniera, con il rischio evidente di liti e questioni.
Le miniere infatti erano in comproprietà. Non è possibile seguire i mutamenti di tali proprietà… Per esempio nel 1589 la ferrera del Varrone risulta divisa in 157 parti!
Quello dei fraini era sempre un lavoro a cottimo; erano infatti pagati in base alle quantità di materiale consegnato all’imbocco della miniera e già arrostito. Il lavoro di miniera si svolgeva normalmente in inverno, in quanto erano minori i rischi di avere acqua all’interno dei cunicoli. I fraini restavano lontani da casa per lunghi mesi completamente isolati sulla montagna. Molte erano le disgrazie; una delle ultime era ancora ricordata fino a pochi decenni fa da tre croci di legno presenti alla bocchetta della Cazze sulla sponda di Biandino; la bocchetta è oggi chiamata Trè Cróos proprio a ricordo di quella disgrazia.

LE REGLANE

Davanti all’imbocco di una miniera esiste sempre una specie di canaletto affiancato da muriccioli e lungo al massimo qualche decina di metri; tale canaletto porta alle reglane, specie di catini più o meno affossati nel terreno e con il fondo grossolanamente lastricato di pietre.

Figura 22 – reglane?

 

Erano i forni di arrostimento nei quali la vena scavata era ammucchiata a strati con carbone o semplicemente legna. La combustione di questo ammasso a temperatura notevole serviva per torrefare la vena e cioè per renderla facilmente frantumabile in pezzettini grandi al massimo come un uovo, e per agevolarne la cernita scartando i frammenti di pietrame.

A valle di ogni miniera si notano ancora vasti accumuli di questi scarti che testimoniano questo arrostimento; tali accumuli insistono su ampi strati di cenere al punto tale che ovunque si scavi in queste zone si trova sempre uno strato di materiale in qualche modo combusto.
Davanti a molte buche, ancora oggi si notano pure rovine di ricoveri o meglio di magazzini in quanto i minatori vivevano e dormivano costantemente all’interno della miniera dove la temperatura era decisamente meno rigida. Ma si notano tanti tipi di rovine spesso qualificate come reglane, cioè forni di arrostimento, ma che non conservano alcuna traccia di fuoco; molte di esse, ancora ben conservate, sono costruite con pietre enormi. Sarebbe interessante analizzare a fondo quelle rovine e comprenderne la funzione.

LA VIE DÓL CAR

La strada del carro. Questo toponimo tramanda la memoria di una strada, o meglio, di una pista o più piste che dalle miniere di Varrone, passando in cresta sulla Sponda di Biandino, toccava i Laghìti e scendeva dalla testata della Val Marsce fino ai forni da ferro, che in quella valle si trovavano almeno fino al XV secolo. Di questa pista si notano ancora le tracce, specialmente in zona Laghìti.

Figura 23 – la Vie dól Car

Un ramo della pista scendeva da qui verso il forno alla Soglia ed un altro ramo in Val Biandino fino alla Baita della Scala dove pure esistette per qualche tempo un forno fusorio.

Lungo queste piste veniva trasportato il minerale, specialmente a mezzo di slitte che erano trascinate quando possibile sulla neve ed in alternativa sull’erba.

Da documenti risulta che, siccome certi siti erano insuperabili con tale sistema, delle cavalcature o dei portatori, erano impiegati al trasporto del minerale lungo questi tratti impervi.

Conclusione

L’ambiente naturale mantiene le tracce della storia più dell’uomo, che nel suo affanno quotidiano costruisce e distrugge.
L’abbiamo visto durante tutta questa nostra passeggiata e particolarmente qui nell’alto Varrone: cumuli di detriti che si susseguono su tutto il pendio, i resti dei forni per la torrefazione del minerale, le tracce delle baite di minatori, gli antri innumerevoli che ancora si aprono, raccontano una storia ben più lunga e complessa di quella che si può ricostruire sulle antiche carte.

È la storia di sudori e di fatiche immani, che innumerevoli generazioni da tempi ignoti hanno lasciata scritta per noi. Un po’ di sensibilità ci fa passare da quei resti ai volti, alle braccia dei protagonisti di tanto lavoro; ci fa pensare ai lunghi inverni trascorsi in galleria, alle preoccupazioni, alle processioni interminabili dei portatori di vena, alle disgrazie, alle guerre per il possesso di quei sassi miracolosi che il fuoco trasformava in metallo.

A questo pensavo quando un pomeriggio di tanto tempo fa scrissi in dialetto questi versi senza pretesa con i quali concludo augurandomi che almeno a qualcuno venga un poco di rimorso di coscienza per tanto scempio e tanto abbandono.

Antonio Bellati

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